Balsami e Ungenti: l’odore degli dèi
Balsami e Ungenti: l’odore degli dèi
(Quando il profumo era ponte tra umano e divino)
Nell’antichità il profumo non era un dettaglio ornamentale, ma una sostanza capace di mettere in contatto uomini e dèi. Le fonti ricordano che la presenza o il passaggio delle divinità tra i mortali si rivelava attraverso un odore soave e persistente, che continuava a diffondersi anche dopo la loro partenza. Era il segno del divino: invisibile, ma percepibile con i sensi.
Per questo, nei sacrifici, non erano le carni a nutrire gli dèi, ma il fumo odoroso che saliva dagli altari. La stessa parola “profumo” deriva dal latino per fumum, “attraverso il fumo”: designava l’aroma sprigionato dalla combustione di resine ed erbe aromatiche nelle pratiche rituali. Gli dèi ricevevano ciò che era impalpabile: il fumo e le fragranze delle parti bruciate sull’altare. Gli uomini, invece, consumavano la carne, in un banchetto che rinsaldava la comunità. Anche il verbo “sacrificare” custodisce questa duplice logica: rendere sacro, separando e al tempo stesso legando, così che uomini e dèi condividessero il pasto ciascuno nella propria forma. Senza profumo non c’è scambio, e senza scambio il patto si spezza.
Anche il mito di Demetra, Kore e Ade lo sottolinea con forza. Quando la dea interrompe il suo lavoro e priva la terra di fertilità, gli uomini cadono nella morsa della fame. Ma anche gli dèi, privati delle offerte, cessano di ricevere quel nutrimento aromatico che li lega ai mortali. Il mondo intero si arresta: non è soltanto la mancanza di pane, ma la sospensione del dialogo tra cielo e terra. E' a quel punto che Hermes viene inviato a riscattare Kore, per ristabilire l’equilibrio spezzato.
Tra i profumi più celebri dell’antichità c’è il Nardo, sostanza che racchiude già nel nome la sua origine esotica. Il termine viene dal latino "nardus", dal greco "νάρδος", a sua volta dal sanscrito "nalada", “pianta profumata”. L’etimologia ci porta lontano, fino alle montagne dell’Himalaya, da cui proveniva la pianta (Nardostachys jatamansi), radice aromatica esportata attraverso le vie carovaniere e marittime fino al Mediterraneo. Il nardo era un balsamo per eccellenza: raro, costoso, simbolo di lusso. Le fonti lo associano a pratiche cultuali e funebri, ma anche alla sfera erotica e della regalità. Plinio lo cita come unguento prezioso ; nei Vangeli, un vaso di "nardum pistici" viene versato da Maria di Betania sui piedi di Gesù, gesto che coniuga consacrazione e prefigurazione della morte («E tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento»).
Dal punto di vista etnobotanico, il nardo era usato in infusione o macerazione, mescolato a olio per ottenere unguenti densi e persistenti. Era quindi tanto “balsamo” (resina odorosa da lontano) quanto “unguento” (sostanza spalmata sul corpo). Il suo valore simbolico stava proprio in questa duplicità: nutrimento degli dèi attraverso il profumo, segno di cura e consacrazione per gli uomini. Celebre come unguento e balsamo prezioso, il nardo era impiegato anche come aroma alimentare, benché in contesti rari e di lusso. Plinio e Ateneo ricordano il suo uso per profumare vini e salse, mentre in India e in Persia era già da secoli spezia di banchetti regali e cerimonie sacre. In questo senso il nardo univa le due dimensioni del sacro: era profumo che saliva agli dèi e insieme cibo profumato che gli uomini ingerivano, trasformando il banchetto in rito.
Le parole che usiamo per parlare di profumi custodiscono in sé un’intera storia di contatti e di migrazioni culturali. “Balsamo” deriva dal latino "balsamum", a sua volta dal greco "βάλσαμον", voce di origine semitica (aramaico "basma", ebraico "bāśām", “pianta odorosa”, “spezia profumata”). Alla radice vi è l’idea del “ciò che emana odore”: una fragranza non solo gradevole, ma preziosa e sacra, spesso legata a riti di consacrazione o di sepoltura. Il “balsamo della Giudea”, resina rarissima, era tanto conteso da divenire sinonimo di ricchezza e privilegio. “Unguento”, invece, ha un’origine più domestica. Viene dal latino "unguere", “spalmare, ungere”, radice indoeuropea "engʷ-", che indica l’atto di cospargere, ricoprire. L’unguentum è, alla lettera, ciò che viene spalmato sul corpo: una sostanza pratica, che in contesto rituale assume valore diverso, perché ungere significa consacrare, marcare un passaggio. È l’atto che distingue il corpo del sacerdote, del re, dell’atleta, della sposa. Se “balsamo” evoca l’esotico, l’importato, la resina che giunge da lontano e apre lo spazio del mistero, “unguento” appartiene invece alla sfera del quotidiano, dell’azione concreta. Eppure, nell’antichità, i due termini finiscono per incontrarsi: l’unguento spesso conteneva balsamo, e il balsamo trovava nel vaso d’unguento la sua custodia.
È in questa cornice che acquista significato l’allusione di Plinio a un unguento corinzio a base di iris, l’*irinum Corinthi*. Corinto, nodo di traffici fra Oriente e Occidente, poteva essersi ritagliata un ruolo anche nel commercio di profumi. L’iris, la cui radice era usata per estrarre essenze intense e persistenti, cresceva spontanea sulle coste dell’Illiria: un ingrediente raro in Europa, eppure disponibile lungo le rotte adriatiche. La città, che già esportava ceramiche e piccoli balsamari, poteva aver unito contenitore e contenuto: vasi eleganti riempiti di profumo. Che fosse davvero così non possiamo dimostrarlo, ma il filo che lega Corinto al commercio dell’iris è coerente con il ruolo della città come mediatrice di beni preziosi e sostanze aromatiche.
Non sorprende che il nome dell’irinum Corinthi si intrecci con quello di Afrodite, la dea che a Corinto aveva un culto potente e sfaccettato. Afrodite, per sua natura, è profumo: le fonti la descrivono sempre circondata da aromi, unguenti, fragranze. Il suo stesso corpo è impregnato di essenze; le Cariti e le Ore tingono i suoi abiti nei fiori primaverili; il suo ritorno annuale a Erice è annunciato dal diffondersi di un odore soave.
Il bouquet di Afrodite non è mai casuale: la rosa, fiore dell’amore e della caducità; il mirto, arbusto della bellezza e della rinascita; il giglio, simbolo di purezza e fecondità; il croco e il giacinto, che richiamano miti di morte e rifioritura; l’iris, con il suo rizoma aromatico, legato al linguaggio del profumo persistente, capace di durare nel tempo e intensificarsi con gli anni. In questo intreccio di piante e aromi, Afrodite non è soltanto la dea dell’amore: è colei che tiene unito il circuito sensoriale e sacrale del profumo, punto d’incontro fra natura, mito e pratica rituale.
Dire che “gli dèi sono profumo” non è una metafora poetica, ma una constatazione antropologica. L’odore, invisibile eppure percepibile, è il linguaggio con cui il divino si manifesta. Il sacrificio non è che il gesto speculare: offrire profumo agli dèi perché essi, riconoscendosi in quell’essenza, si mantengano propizi.
Corinto, città “profumata” per i suoi commerci e per il culto di Afrodite, ci restituisce l’immagine di un mondo in cui le piante aromatiche non erano solo materia prima, ma veicoli di presenza e di relazione. L’iris illirico, la rosa, il mirto, il giglio, il nardo: un bouquet divino che attraversava il Mediterraneo e che, ancora oggi, rimane al centro della nostra idea di bellezza e desiderio. Non è un caso che il nardo e l’iris compaiano tuttora nelle composizioni di alta profumeria, dalle maison storiche a quelle più innovative.
Certi aromi, da millenni, abitano il confine tra corpo e divino. Il loro profumo, persistente e sottile, continua a dire ciò che gli antichi già sapevano: che gli dèi si rivelano nell’odore, e che attraverso il profumo e l'olfatto l’uomo può ancora cercare un contatto con l’invisibile.
Questo testo prende forma dalle suggestioni evocate da Erika Maderna (Aromi sacri, fragranze profane. Simboli, mitologie, passioni profumatorie nel mondo antico, Aboca), da Claudia Lambrugo (Corinto “profumata”: Afrodite e la via dell’iris, disponibile su academia.edu), e dall’esperienza sensoriale offerta dal preparato a base di nardo dell'amica Sabrina Grandoni. Non ultima, l'esperienza studio, ricerca e coltivazione che stiamo conducendo con l'amica e collega Carolina Ferracin.
Nell'immagine: Nardostachys jatamansi
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